Ogni organizzazione - per poter funzionare con un tasso di conflitto ragionevolmente basso - ha bisogno che tutti i suoi componenti, ai vari livelli, non solo conoscano norme, valori, modelli di comportamento che l'organizzazione ha interiorizzato, ma siano anche attivamente impegnati a corrispondervi. In altri termini ha bisogno di un serbatoio comune di risorse motivazionali da cui attingere per svolgere al meglio i propri processi lavorativi. Questo, appunto, è l'obiettivo del processo di socializzazione che le organizzazioni si sforzano di realizzare in modo più o meno efficace.
Visto nell'ottica dell'azienda, la gestione della socializzazione del neofita comporta l'attivazione di quei meccanismi gestionali, formali e informali, che portano una persona ad essere riconosciuto come membro attivo (acquisizione della membership) della unità organizzativa in cui è stato inserito.
Ogni organizzazione adotta proprie strategie di socializzazione (più o meno severe e più o meno coerenti) dei nuovi arrivati ed anche delle persone che cambiano ruolo all'interno dell'organigramma grazie, per esempio, ad un avanzamento di carriera oppure per un demansionamento o un cambiamento di reparto. A volte tali strategie di socializzazione si accompagnano, sul piano simbolico, a veri e propri "riti di passaggio": si pensi alla vestizione di una uniforme nell'esercito o più semplicemente un corso per neoassunti.
Il processo di socializzazione va visto non solo dal lato dell'azienda che vuole esercitare un processo di influenza sulla persona assunta, ma anche e contestualmente dal lato del neofita.
Anche l’individuo che entra in una organizzazione porta con sè una propria “carta di identità", frutto di un proprio background (scuola, famiglia, cultura di appartenenza, ecc.), caratterizzata da aspettative e disposizioni comportamentali (scopi individuali, tipi di aspirazioni, modalità di relazione con l'autorità, ecc.) regolati anch'essi da un sistema di valori. Egli vive l'inserimento in una organizzazione o il cambiamento di mansione come processo di adattamento, in cui si palesa l’esigenza di intraprendere una serie di cambiamenti cognitivi e valoriali che possono essere vissuti come ansiogeni, fonte di tensioni più o meno forti, di compromessi più o meno facili con la propria identità e con l'immagine che vuole veicolare di sè stesso.
Non sorprende, quindi, che il processo di socializzazione possa essere difficile e fonte di tensioni in quanto coinvolge due identità (quella dell'organizzazione e quella della persona neo-assunta) con bisogni ed aspettative che, di volta in volta, possono essere o meno in armonia.
Un buon esito di tale processo dipende, perciò, dalla capacità di costruire un "minimo comune denominatore" tra queste due identità, e, cioè, dalla possibilità che il processo si svolga nel contesto di un rapporto dialettico dove tendenzialmente, al di là della ovvia asimmetria di potere, vi sia un reciproco riconoscimento ed apprezzamento.
Modelli di socializzazione eccessivamente rigidi ed autoritari (tipo quelli normalmente adottati con le reclute in caserma) possono generare problemi in termini di motivazione delle persone a dare il meglio di sé; modelli eccessivamente "lassisti" corrono il rischio di lasciare in ombra le aspettative che l'organizzazione ha nei confronti delle persone e dei livelli di responsabilità ed autonomia con cui ci si attende che essi svolgano il proprio ruolo.
Volendo delineare un paradigma per l'analisi dei processi di socializzazione ad un ruolo lavorativo possiamo utilmente far riferimento ad un testo "classico" di psicologia sociale, quello di Secord e Backman.
Gli autori sottolineano come sia inadeguato ridurre il processo di socializzazione al rapporto intercorrente tra l'occupante, esperto di una data posizione, ed il neofita che aspira ad essa. Se il rapporto “apprendista–maestro”, infatti, può essere adeguato per analizzare l’apprendimento di alcune competenze tecniche, esso non può dar conto del processo di acquisizione di valori e disposizioni comportamentali connesse a tale ruolo, processo che, di solito, avviene in maniera informale e con una certa gradualità, in modo da consentire una riorganizzazione degli orientamenti cognitivi e motivazionali del socializzando.
Inoltre lo schema "apprendista–maestro” relega il socializzando in una posizione essenzialmente passiva, mascherando le effettive possibilità di negoziazione e di influenza reciproca che intercorrono tra il socializzando ed i vari agenti di socializzazione (vale a dire gli attori sociali con i quali il nuovo arrivato interagisce e che possono condizionare il processo di socializzazione). Tale possibilità svolge una funzione di estrema importanza per l'organizzazione: poiché il processo di socializzazione è anche un processo di selezione delle disposizioni comportamentali. Se non vi fosse una effettiva negoziazione ed influenza reciproca, le personalità dei membri dell'organizzazione si raggrupperebbero (come avviene nelle istituzioni totali) entro fasce modali troppo rigide ed anguste, così da pregiudicare le capacità innovative dell'organizzazione stessa.
Possiamo riassumere l'analisi che Secord e Backman fanno dei fattori che, di volta in volta, facilitano oppure ostacolano il processo di socializzazione, nei seguenti punti chiave:
Fattori connessi alle caratteristiche del sistema organizzativo:
chiarezza e consenso sulle aspettative di ruolo espresse dagli agenti di socializzazione
compatibilità delle aspettative reali con la concezione “profana” del ruolo che aveva il socializzando prima di accedere a tale ruolo
apprendimento, precedente all'occupazione del ruolo, dei suoi contenuti
estensione del ruolo, vale a dire la parte che il ruolo assorbe della totalità del tempo e degli sforzi del socializzando
costi e benefici (valore gratificante) del ruolo lavorativo assunto
Fattori connessi alle caratteristiche della situazione:
natura delle situazioni de-socializzanti, vale a dire il complesso di misure che vengono prese per spogliare il neofita dei suoi precedenti orientamenti di ruolo e disposizioni comportamentali;
natura delle situazioni che intensificano la socializzazione, quali l’intensità dello sforzo richiesto, l'enfasi posta sulle differenze di status tra il neofita ed i membri anziani, i "rituali di passaggio", ecc.;
possibilità di identificazione con una o più persone che fungono da esempio o "modello" efficace di comportamento.
Fattori connessi alle caratteristiche individuali:
possesso di capacità ed attitudini necessarie all'assunzione del ruolo
concezione del proprio sé conforme o contrario alle aspettative del ruolo che il socializzando dovrà ricoprire
atteggiamenti e bisogni che facilitano oppure ostacolano lo svolgimento di ruolo
Il buon esito del processo di socializzazione dipende quindi dalla capacità di costruire un "minimo comune denominatore" tra i valori dell'organizzazione e quelli del nuovo arrivato, e cioè dalla possibilità che il processo si volga nel contesto di un rapporto dialettico dove tendenzialmente, al di là della ovvia asimmetria di potere, vi sia un reciproco riconoscimento ed apprezzamento. Diversamente, una concezione da parte di un'azienda della socializzazione come processo unidirezionale di influenza che mira ad ottenere nel neofita la accettazione passiva delle regole e l'adozione di comportamenti prescritti, comporta il rischio di un'improduttiva dispersione di attitudini, motivazioni e potenzialità presenti nel socializzando.
Lo studio dei problemi posti dalla gestione del processo di socializzazione organizzativa trova in Edgard H. Schein uno degli autori più attenti (e più citati). Interessante è ancor oggi la lettura di un suo articolo dal titolo "Organizational Socialization and the Profession of Management" che colloca la gestione della socializzazione tra i compiti specifici del management aziendale.
Nello scritto sono analizzate (sia pure in riferimento ad un contesto di relazioni industriali che appare ormai un po' obsoleto) le fasi in cui si articola la socializzazione organizzativa nonché i molteplici "agenti di socializzazione" (capi, colleghi, formatori, ecc.) che intervengono nel processo ed i sistemi di ricompense - materiali o simboliche - che ciascuno di essi controlla.
A tale riguardo viene sottolineato il ruolo del piccolo gruppo (“gruppo dei pari”, gruppo dei colleghi) nel quali il neo-assunto viene inserito. Questo ultimo controlla tanto ricompense di tipo strumentale (conoscenze tecniche, modalità di valutare le situazioni, ecc.) quanto ricompense di tipo espressivo (approvazione, stima, sostegno emotivo, ecc.) ed esprime una forte pressione sul nuovo venuto affinché si adegui alle norme di comportamento tecnico e sociale ed ai valori del gruppo stesso (socializzazione al piccolo gruppo).
Esiste, in ogni organizzazione, il pericolo che le richieste di adeguamento espresse dal gruppo dei pari agiscano come “forze contro-socializzanti” rispetto alla richiesta di impegno aziendale; ma se -come avviene spesso -si ha una situazione in cui il gruppo dei pari ha elaborato una sua “cultura” che è orientata in modo sufficientemente positivo nei confronti della organizzazione, allora esso diviene uno dei più potenti agenti della socializzazione organizzativa, più presente, attento ed efficace della stessa gerarchia aziendale.
Il processo di socializzazione costituisce, dal punto di vista dell'organizzazione, una delle principali modalità di controllo sociale, inteso come l'insieme di attività e di meccanismi diretti ad uniformare la condotta degli individui in modo che essa sia coerente con le norme, i valori e le aspettative di un dato sistema sociale, il cui risultato, tuttavia, non può essere dato per scontato. Schein mette in evidenza come siano espressione di fallimento della socializzazione tanto i comportamenti di ribellione quanto di "iperconformismo".
L'osservanza perfezionistica delle norme previste dall'organizzazione (che R. K. Merton definiva "ritualismo") può essere anche più dannosa - soprattutto per quelle organizzazioni che registrano un'elevata dinamica evolutiva- del rifiuto esplicito di tali norme. Il conformista, infatti, "reprime la propria creatività e spinge in tal modo l'organizzazione ad assumere sterili connotati burocratici ". L'accettazione acritica della cultura burocratica, giocata in senso difensivo, come "passività appresa", costituisce dunque la manifestazione di un fallimento del processo di socializzazione.
L'esito del processo di socializzazione potrà invece dirsi positivo solo se l'atteggiamento finale del socializzando sarà quello dello “individualismo creativo”, che accompagna all'accettazione delle norme e dei valori centrali dell'organizzazione, la capacità di ridefinire, di volta in volta, regole e logiche comportamentali che consentono all'organizzazione di conseguire i propri obiettivi trovando risposte ad istanze di cambiamento che essa si trova a dover affrontare.
Nella prospettiva suggerita da Shein la socializzazione si configura come processo di negoziazione che richiede un atteggiamento proattivo sia da parte degli agenti di socializzazione sia da parte del socializzando; la posta in gioco è il conseguimento di una effettiva membership connotata da impegno organizzativo e motivazione al lavoro.
La consapevolezza della importanza del processo di socializzazione organizzativa (o di "ri-socializzazione" che interviene quando una persona si sposta in un nuovo settore o assume un nuovo ruolo organizzativo) ha mosso molte aziende ed istituzioni pubbliche ad adottare figure di supporto al socializzando, variamente denominate curarsi non solo del nuovo assunto, ma anche dei rapporti che intervengono con i diversi agenti di socializzazione.
Con le modifiche prodottesi in anni recenti nel mercato del lavoro segnate dall'aumento dei contratti a termine e dalla ricerca di una risposta ad esigenze di flessibilità aziendale che si traduce spesso in precarietà di impiego, risulta in qualche modo compromessa la possibilità di una efficace gestione del processo di socializzazione. Tra individuo e organizzazione tende a prevalere lo scambio meramente economico, rispetto ad uno scambio che sia anche sociale. Di qui - secondo alcuni studiosi - la possibile adozione da parte dei neofiti di atteggiamenti poco proattivi, assieme alla crescita del senso di marginalità ed il pericolo di un abbassamento dell’autostima e dell’autoefficacia. Tutti aspetti che possono produrre svantaggi maggiori ai vantaggi derivanti dalla reclamata flessibilità aziendale.
Secondo altri studiosi la flessibilità del lavoro consente l'emergenza di nuovi valori del lavoro e di nuove concezioni dello stare nelle organizzazioni. Di qui deriverebbe la esigenza di adottare modelli alternativi di socializzazione adeguati alla nuova realtà del mercato del lavoro, a cominciare dalla socializzazione anticipatoria, ovvero il processo attraverso il quale il neofita impara a conoscere preventivamente ed a prefigurarsi le caratteristiche del mondo del lavoro e dei ruoli lavorativi che potrà assumere, che ha luogo nella scuola e nella formazione professionale, in modo da mettere le persone in grado gestire l'incertezza (ad es. aumentando la propria resilienza"), e di capitalizzare gli apprendimenti derivanti dalle esperienze lavorative, ancorché frammentarie e discontinue.
Le buone prassi
Per ridurre i disagi e lo spaesamento dei neoassunti in genere sono programmate iniziative che rientrano nelle politiche di gestione delle risorse umane e che esprimono le differenti tattiche di socializzazione prescelte. Tali tattiche sono state individuate per la prima volta da Van Maanen e Schein [1979] e sono divenute lo schema tipico con cui si considerano le differenti modalità di strutturazione dell’esperienza di inserimento lavorativo in un’organizzazione.
Ogni tattica si caratterizza lungo un continuum bipolare:
la tattica collettiva consiste nel raggruppare i neofiti ed esporli a un comune set di informazioni ed esperienze al fine di ottenere risposte omogenee e standardizzate, piuttosto che indirizzarli verso un’esperienza differenziata e tendenzialmente unica (tattica individuale) che potrebbe determinare eterogeneità nelle condotte.
le tattiche formali implicano la segregazione dei neofiti in un contesto specifico, separato dai membri esperti al fine di stimolare un’accettazione dei punti di vista dei testimoni significativi dell’organizzazione e sviluppare ulteriormente la condivisione delle regole, delle norme e degli atteggiamenti comunemente approvati. Ciò appunto si contrappone alle tattiche informali di apprendimento diretto del lavoro mediante osservazione della realtà lavorativa.
le tattiche sequenziali sono quelle che prevedono con chiarezza una serie di passi da seguire per assumere il ruolo definitivo mentre quelle casuali avvengono, appunto, casualmente e senza chiara precisazione delle eventuali tappe che scandiscono l’esperienza lavorativa.
le tattiche prefissate provvedono a stabilire i tempi da rispettare nell’assunzione dei ruoli al contrario di quelle variabili che non informano della scansione temporale ottimale delle differenti tappe da seguire per il pieno inserimento lavorativo.
le tattiche seriali si basano sull’affidamento del neofita a persona esperta (ad esempio, un tutor) per svolgere una funzione di modello di riferimento, al contrario di quanto avviene con le tattiche separatiste che lasciano il neoassunto nella condizione di dover trovare le soluzioni adatte per gestire i compiti e i ruoli assegnati.
le tattiche di investitura si basano sul riconoscimento esplicito dell’identità del neofita e delle sue qualità significative da parte dei membri dell’organizzazione. Al contrario, le tattiche di non investitura si propongono di negare o disconfermare il valore di alcuni aspetti dell’attuale identità dei neoassunti per cercare di spingere a importanti modifiche degli attributi personali e delle immagini di sé.
Queste sei tattiche (collettiva, formale, sequenziale, prefissata, seriale e di investitura) rappresentano, nel loro insieme, una forma di socializzazione istituzionalizzata o programmata che spinge i neoassunti a recepire e riprodurre i ruoli assegnati, riducendo la diversità ed eterogeneità delle esperienze, come pure l’incertezza connessa con la transizione organizzativa. Si tratta di una contrapposizione estrema rispetto alla polarità opposta, esplicitata dalle tattiche di socializzazione individualizzata (individuale, informale, casuale, variabile, separatista, di non investitura). Queste ultime si prestano di più a valorizzare il contributo originale delle persone, il farsi delle domande sul lavoro e sul suo significato, il rivestire e gestire i ruoli assegnati esprimendo la propria individualità, mentre risultano meno adatte a ridurre i disagi e l’ansia derivanti dall’incertezza della nuova situazione che i neoassunti devono gestire contando solo sulle proprie forze. Naturalmente, nella realtà concreta ci si trova di fronte a posizionamenti diversi rispetto al continuum di queste tattiche contrapposte, con combinazioni che presentano dosaggi più o meno ragionevoli delle dimensioni sopra considerate.
In generale, comunque, si è osservato che le tattiche di socializzazione tendenzialmente istituzionali sono inversamente correlate con la percezione di ambiguità di ruolo, il conflitto di ruolo, l’intenzione di abbandonare il lavoro, mentre sono positivamente connesse con la percezione di un adeguato fit tra persona e organizzazione, la soddisfazione per il lavoro, il commitment organizzativo e le buone prestazioni per qualità e quantità.
In sintesi, per contrastare l’incertezza dell’ingresso in un nuovo ruolo lavorativo le varie tattiche di socializzazione possono svolgere una funzione informativa, di sostegno sociale e feedback positivo di cui il lavoratore si avvale per superare l’ambiguità, non essere sovrastato da dubbi di inadeguatezza personale e mantenere la possibilità di trovare una forma di adattamento alla nuova situazione corrispondente alle proprie attese.
Socializzazione proattiva
Anche il lavoratore svolge un ruolo decisivo nello sviluppo della sua interazione con l’organizzazione. Le ricerche degli ultimi anni sottolineano l’importanza della proattività della persona ed evidenziano diverse tattiche di autosocializzazione. Tra le più importanti possiamo menzionare la ricerca di informazioni e la richiesta di feedback come espressione della proattività individuale.
In tal senso, il darsi da fare per osservare con cura le condotte di altri più esperti rappresenta una forma indiretta di acquisizione di informazioni utili che integra le richieste dirette ai supervisori (che sono, comunque, una fonte informativa primaria anche sul piano osservativo).
In generale, il comportamento proattivo rappresenta un tipo di iniziativa promossa intenzionalmente dalla persona per regolare la propria presenza nell’ambiente attraverso la ricerca costante delle informazioni necessarie per comprendere la situazione e prendere le decisioni ottimali. Le dimensioni principali di tale tipo di comportamento sono:
la costruzione di relazioni significative con i superiori, l’entrare a far parte di un networking anche con i colleghi,
la ricerca di un significato (sense-making) nel lavoro che si svolge acquisendo le informazioni sul lavoro, sul contesto sociale, sugli stili più apprezzati e sui valori di riferimento,
la ricerca di un feedback per poter riconoscere il grado di avvicinamento ai risultati attesi
l’utilizzo di uno schema di rifermento ottimistico (positive framing) per valutare la situazione riconoscendone soprattutto gli aspetti positivi.
Ulteriori tattiche di autosocializzazione si riferiscono al negoziare i cambiamenti di lavoro, alla ricerca di un mentore e alla pianificazione della carriera utilizzando le opportunità e le risorse messe a disposizione dall’organizzazione (ad esempio, colloqui di carriera, counselling ecc.). Le evidenze empiriche del legame tra proattività e adattamento positivo al lavoro sono numerose.
Ad esempio, le attività di sense-making sono correlate alla chiarezza di ruolo e alla padronanza dei compiti, mentre la costruzione di relazioni positive e il networking facilitano l’integrazione sociale nei gruppi di lavoro e nell’organizzazione in generale. Quello che le persone fanno attivamente per inserirsi nell’organizzazione, coltivando relazioni sociali, facilita l’accessibilità e la mobilizzazione di risorse informative che hanno un rilievo sia per l’adattamento attuale, sia per verificare le proprie aspettative di riuscita e i propri progetti di più lungo periodo che orientano le decisioni di carriera, sia, infine, per accumulare un capitale di conoscenze e capacità, derivante dall’esperienza, spendibile in differenti fasi del proprio sviluppo professionale dentro o fuori l’organizzazione.
A tale riguardo viene riconosciuta l’importanza del self-monitoring per utilizzare a fondo le risorse disponibili nel contesto funzionali alla costruzione del proprio percorso professionale. Con questa espressione indichiamo la capacità di discernere e comprendere le caratteristiche della situazione lavorativa percependo in modo accurato i segnali interpersonali e sociali che possono orientare la scelta di risposte appropriate. In tal senso, le persone con elevato self-monitoring si focalizzano con maggiore continuità sulla rete di relazioni e sui processi comunicativi che stanno alla base della socializzazione, ricavandone le spinte motivazionali a utilizzarli con efficacia per un soddisfacente adattamento.
Anche se ci siamo soffermati sulla socializzazione organizzativa assumendo come prototipo i primi ingressi lavorativi, il compito da affrontare, per chi entra in un contesto lavorativo nuovo (anche avendo precedenti esperienze di lavoro), presenta notevoli somiglianze con quanto sottolineato per i newcomers. Si conferma cioè l’idea che il processo di socializzazione abbia una continuità nel tempo e segua la carriera oggettiva delle persone e i loro cambiamenti di posizione o di posto. Tale compito, come abbiamo visto, consiste in operazioni di natura sia individuale che sociale affrontate con gli atteggiamenti proattivi che possono aiutarlo a mantenere un ruolo di guida del processo di socializzazione. La persona, infatti, deve confrontarsi con la realtà del nuovo lavoro, sviluppare gli apprendimenti che permettono di chiarificare il proprio ruolo, collocarsi attivamente nel contesto e valutare la sua capacità di svolgere quanto richiesto.
Nello stesso tempo, accanto al potenziamento dell’expertise legata ai compiti, sono da gestire interazioni sociali che facilitino un effettivo inserimento nei gruppi di lavoro e la costruzione di sentimenti di appartenenza e rendano possibile valutare la propria attuale presenza organizzativa anche in una prospettiva più ampia, ovvero come step di una carriera che può essere costruita all’interno o all’esterno dell’organizzazione. Il richiamo all’interazione fra tattiche organizzative e personali di socializzazione organizzativa può servire per riconoscere la loro connessione con il tema della carriera. Infatti tra gli esiti distali della socializzazione si collocano anche quelli a lungo termine che riguardano il tipo di percorso intrapreso e i suoi esiti positivi rispetto alle attese iniziali (riconoscimenti, promozioni, forme di mobilità interna, soddisfazione di carriera ecc.).
In altri termini, la riuscita della carriera rappresenta un aspetto dell’adattamento organizzativo che ha una rilevanza per l’accumulo di esperienze, conoscenze e capacità del lavoratore che arricchiscono il suo capitale professionale, spendibile anche in altri contesti. La carriera, in tal senso, diviene un insieme di esperienze di socializzazione riuscita che la persona porta con sé, come patrimonio di competenze e di atteggiamenti, quando si muove da un ruolo all’altro, da una posizione all’altra lungo il corso della sua vita lavorativa, svolta in una o più organizzazioni.
Riferimenti
Secord P.F. , Backman C.W., Psicologia Sociale, Bologna, Il Mulino, 1971
Sarchielli G, La socializzazione al lavoro, Bologna, Il Mulino, 1978
Kreitner, R., Kinicki, A., Comportamento organizzativo, Milano, Apogeo editore, 2004
Schein, E. H.,Organizational Socialization and the Profession of Management”, Industrial Management Rewiew, 1968
Boccia, P., Socializzazione e controllo sociale, Napoli, Luguori, 2002
Garelli F,. Palmonari A., Sciolla L., La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione dei valori tra i giovani, Bologna, Il Mulino, 2006
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